Sciopero!
Lo sciopero di Genova del 1900
«Lo sciopero di Genova resterà famoso e farà epoca negli annali dei lavoratori di tutto il mondo per la grandezza, la solennità e la serietà della dimostrazione. I lavoratori genovesi hanno fatto vedere che essi sono i padroni della grandezza di tutta l’Italia».
Con queste parole il deputato Pietro Chiesa, operaio e socialista, uno degli artefici dell’imponente mobilitazione che, tra il 19 e il 23 dicembre del 1900, bloccò per ben cinque giorni il porto di Genova, la città intera e – di fatto – tutta l’economia del paese, salutava con entusiasmo la grande vittoria sindacale.
Per comprendere pienamente il valore storico dei “cinque giorni al porto“, vale a dire del primo sciopero generale cittadino nella storia d’Italia, è necessario innanzitutto collocare quel famoso episodio all’interno del contesto economico e politico dell’epoca.
Da un lato, infatti, il decollo industriale del paese, iniziato negli ultimi anni dell’Ottocento, stava favorendo la formazione di un ampio movimento operaio, sempre più organizzato e deciso a far valere i propri diritti e interessi. Dall’altro lato, la recente “crisi di fine secolo”, culminata nella grave repressione militare contro i lavoratori e le loro prime leghe sindacali, aveva mostrato non solo la fragilità, ma anche l’arretratezza delle istituzioni liberali del Regno d’Italia.
Le Leghe sindacali di resistenza erano nate durante i primi scioperi avvenuti tra gli anni settanta e ottanta del XIX secolo: Leghe di “prepotenza” le chiamava il Prefetto di Genova Camillo Garroni, il quale mal sopportava, come la gran parte degli appartenenti alle classi dirigenti economiche e politiche, che i lavoratori si organizzassero collettivamente e lottassero per migliorare le loro misere condizioni di vita. Il sindacato, dunque, nacque proprio con l’affermazione dello sciopero.
Negli anni novanta, poi, erano state costituite le prime Camere del Lavoro, che univano a livello territoriale (comunale o provinciale) le organizzazioni di resistenza. A Genova, la Camera del Lavoro era sorta nel 1896, con funzioni che spaziavano dal controllo del collocamento all’insegnamento professionale, dalla promozione di biblioteche per i lavoratori al reinserimento dei carcerati nella società una volta scontata la pena. Il motivo della moderazione iniziale era essenzialmente economico: agli inizi, infatti, contando pochi soci, le Camere del Lavoro avevano bisogno per sopravvivere del finanziamento da parte dei Comuni.
Così, quando nel novembre 1896 una decisione del Consiglio di Stato negò alle Amministrazioni comunali la possibilità di sovvenzionare le Camere del Lavoro (in quanto considerate organismi non di “pubblica utilità”, ma “di parte”), il delicato equilibrio iniziale finì per spezzarsi. Appena un mese dopo, a dicembre, la Camera del Lavoro di Genova venne chiusa, insieme a tante altre, proprio nel momento in cui essa stava contrastando la partenza di lavoratori “crumiri” verso il porto di Amburgo, teatro di un’importante agitazione dei portuali locali.
Successivamente un secondo scioglimento venne decretato nel 1898, cioè nella fase più calda della “crisi di fine secolo” (culminata nelle terribili cannonate di Bava Beccaris a Milano contro le barricate erette dal popolo), quando le autorità governative, con il sostegno di militari e tribunali, scelsero nuovamente la via della repressione contro il movimento sindacale. Infine, nel dicembre 1900, poco tempo dopo la riapertura della Camera del Lavoro, arrivò il terzo scioglimento.
Quali furono le cause? L’ordinanza prefettizia di Garroni parlava esplicitamente di incitazione all’odio di classe e di sovversione dell’ordine pubblico. In realtà, il vero motivo del provvedimento derivava dall’importanza dei risultati che la Camera del Lavoro era riuscita a conseguire negli ultimi tempi. Nel novembre 1900, infatti, essa aveva ottenuto una tariffa più alta per i portuali; inoltre, aveva iniziato a organizzare i lavoratori contro i “confidenti”, vale a dire quei “caporali”, intermediari privati tra manodopera e imprese, che dominavano il mercato del lavoro tramite soprusi e atti di violenza. Alle origini dell’ennesimo scioglimento della Camera del Lavoro, dunque, vi era la lotta contro i bassi salari e lo sfruttamento della manodopera.
Dei ”cinque giorni al porto” ancora oggi colpiscono due aspetti. Il primo è il livello alto di partecipazione operaia: si partì da una piccola assemblea di poche decine di lavoratori che decisero lo sciopero e si arrivò a mobilitarne circa ventimila e a portarne al voto diecimila per eleggere i propri rappresentanti: si trattò, quindi, come si direbbe oggi, di un’esperienza assai avanzata di “democrazia partecipativa”.
Il secondo elemento riguarda l’entità della vittoria, che fu totale. Tutte le richieste operaie vennero accettate, a partire dalla riapertura della Camera del Lavoro, accompagnata dalla fine del sequestro dei beni. Con quell’azione sindacale così decisa i lavoratori genovesi si riappropriarono della libertà (universale) di associazione, organizzazione e riunione, e si riappropriarono di uno spazio fondamentale, per sé e per gli altri. Il sindacato – era questa la lezione principale, ancora oggi valida – non era soltanto un soggetto economico, che agisce per fini meramente redistributivi, ma anche un attore politico, che persegue la giustizia sociale.
Le conseguenze dirette dello sciopero furono altrettanto rilevanti, con la caduta del Governo Saracco, avvenuta proprio in seguito alla discussione parlamentare sullo sciopero di Genova, e l’apertura di una nuova stagione politica, quella giolittiana L’Italia fece così un notevole passo in avanti sul terreno della democrazia. Nel nuovo contesto liberaldemocratico, infatti, le istituzioni scelsero di mantenere un atteggiamento neutrale nei rapporti e nei conflitti tra le imprese e il mondo del lavoro. Giolitti denunciò pubblicamente i limiti del sistema precedente; nelle sue memorie egli scrisse che i suoi predecessori non avevano compreso un fatto tanto decisivo, e cioè che “l’organizzazione degli operai camminava di pari passo col progresso generale della civiltà”.
Una perla di sciopero
Il 22 dicembre 1900, nell’ex oratorio di San Filippo in via Lomellini, la Camera del Lavoro di Genova poteva procedere liberamente alla elezione del suo nuovo direttivo e degli organi previsti dal suo Statuto.
Il giorno successivo, una solenne manifestazione al teatro Carlo Felice, stracolmo di operai e portuali e alla presenza delle istituzioni, ufficializza la rinascita del sindacato genovese. Da via della Grazie, la prima sede devastata dai sequestri di mobili e documenti, gli uffici si trasferiscono in via della Pace, prima tappa di una peregrinazione che li condurrà prima in via Cesarea, poi in vico Tana, sino alla attuale Casa del Sindacato di via San Giovanni d’Acri, nel quartiere di Cornigliano.
I caratteri di eccezionalità di questa grande e clamorosa protesta che inaugura il Novecento, preludio al primo sciopero generale della storia italiana (1904), concorrono a fissare l’episodio nella memoria della città: l’inedita mobilitazione dei cittadini e delle migliaia di lavoratori di tutti i settori stretti nella difesa a oltranza del diritto di associazione, il raggiungimento di obiettivi di legittimazione ben oltre le stesse aspettative dei dirigenti. Infine, la visibilità stessa conquistata dai lavoratori genovesi sulla scena nazionale, amplificata dai reportages del giovane Luigi Einaudi su «La Stampa».
Lo sciopero del dicembre 1900 è spesso ricordato come uno dei nodi della narrazione del lavoro nella città industriale, elemento di continuità rispetto alla storica tradizione democratica cittadina e nello stesso tempo di rottura rispetto alle pratiche di negoziazione e di relazione postrisorgimentali. Un episodio destinato, non a caso, a riaffiorare con forza in occasione di altri momenti di conflittualità e di lotta per i diritti nel corso del secolo XX.
È la sera del 28 marzo 1969 quando Vico Faggi (pseudonimo del magistrato Alessandro Orengo, già regista de Il processo di Savona a Sandro Pertini) e Luigi Squarzina mettono in scena la prima rappresentazione di Cinque giorni al Porto alla Sala Chiamata del porto, a ridosso delle banchine in cui il 19 dicembre 1900 migliaia di lavoratori avevano serrato le braccia.
Prima di debuttare ufficialmente il 1° aprile al Politeama, lo spettacolo va in scena anche alle Officine Guglielmetti dell’Azienda municipalizzata dei trasporti in Valbisagno e all’Italsider di Cornigliano e di Novi Ligure, in una memorabile esperienza del teatro-documento fondato sulle fonti di archivio immaginato dal direttore del Teatro Stabile Ivo Chiesa, che diede vita alle stagioni teatrali decentrate nelle delegazioni.
Nelle due parti della commedia, tra le scenografie di Gianfranco Padovani e le musiche di Sergio Liberovici, le doti registiche di Squarzina si miscelano con quelle recitative di Eros Pagni, Omero Antonutti, Camillo Milli, Antonello Pischedda, attorniati da uno stuolo di attori provenienti anche dalla scena dialettale. Gli operai, infatti, parlano rigorosamente in zeneixe:
CALDA Disciplinato, onorevole, ordinato. Ordinatissimo. Una perla di sciopero. E generale. Di tutta la città (reazioni di sorpresa)
VOCI Tùtta a çittae? Ma e atre categorie ne vegnîan appreuvo? O no s’è mai faeto. Da nisciûnn-a parte…
CALDA Lo faremo a Genova.
Il clima sociale e politico è determinante ad assicurarne il successo: è ancora calda la protesta studentesca che aveva dato vita al maggio francese e alle contestazioni giovanili del 1968, mentre si approssima l’autunno caldo della protesta operaia.
I protagonisti di allora, l’operaio verniciatore di Sampierdarena Pietro Chiesa da poco eletto deputato, il tipografo Lodovico Calda poi segretario per vent’anni della Camera del Lavoro, il prefetto Camillo Garroni emblema dell’ottusità reazionaria, calcano una scena immaginaria in realtà più vasta, saldando idealmente la parola teatrale a quella dei tazebao, dei manifesti e dei volantini, degli slogan politici, della musica e della creatività che prorompono dai movimenti del Sessantotto.
Anche le foto d’epoca, proiettate sui muri spogli della sala adibita alla chiamata quotidiana per formare le squadre, richiamano alla memoria dei portuali altre, più recenti, mobilitazioni che li hanno visti protagonisti: le giornate dell’aprile 1945, che portarono alla fine dell’occupazione tedesca e della guerra, e quelle più recenti del giugno-luglio 1960, segnate dalle loro iconiche magliette a strisce e dalla ferma risposta genovese che, ancora una volta, era stata in grado di far cadere un governo.
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documenti
Archivio Camera del Lavoro Metropolitana di Genova, Fondo complementare, Organi dirigenti, b. 1, fasc. 1, CITTÀ DI GENOVA. CAMERA DEL LAVORO, Statuto e regolamento, Genova, Tip. G.B. Marsano, 1901
Archivio Camera del Lavoro Metropolitana di Genova, Fondo complementare, Ufficio stampa, b. 7, fasc. 4, Circolo Italsider di Novi Ligure, programma di sala della rappresentazione di “Cinque giorni al porto”, 16 aprile 1968
fotografie
manifesti
audiovisivi
dal canale YouTube Cgil Genova
- convegno “Il sindacato davanti alla modernità” con la presentazione delle foto di Uliano Lucas per i 120 anni della Camera del Lavoro di Genova, 2016