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Hanno rapito Matteotti. Genova operaia nella tempesta

Hanno rapito Matteotti.
Genova operaia nella tempesta 

«Nell’anno, per far fronte alla situazione creatasi nel movimento sindacale a causa degli ultimi avvenimenti, occorrerà la massima parsimonia nelle spese, e sappiamo che l’Amministrazione della Camera del Lavoro sta oculatamente provvedendo per tutte le economie possibili» (Camera del Lavoro di Genova, Relazione morale e finanziaria 1923). 

L’austerità invocata, resa più impellente dalla necessità di riparare alla devastazione della sede, è un elemento che la dirigenza della Camera del Lavoro genovese condivide con problemi ancora più pressanti. Gli ultimi avvenimenti del biennio sono ben noti a tutti i dirigenti e prendono inizio dal fallimento dello sciopero generale, “legalitario”, nella definizione di Filippo Turati, indetto dall’Alleanza del Lavoro nell’agosto 1922. Lo sciopero, disatteso dalla maggioranza dei lavoratori e cui erano seguiti cinque giorni di sommosse, omicidi e violenze, aveva chiuso anche l’esperienza della concentrazione nazionale di partiti e organizzazioni, di cui faceva parte anche la CgdL, nata per denunciare e opporsi legalmente alle continue violenze delle bande fasciste verso le camere del lavoro, le organizzazioni di categoria, i comuni retti da amministrazioni rosse, le case del popolo, le società mutue e cooperative operaie, i loro preziosi organi di informazione.

La reazione a Genova, nell’estate 1922, si era abbattuta immediata, con i fascisti all’assalto delle camere del lavoro e del Consorzio autonomo del porto, la revoca delle concessioni alle cooperative, lo scioglimento delle compagnie di lavoratori e la facoltà concessa agli armatori di avvalersi della libera scelta. Un salto indietro di venti anni sul fronte della partecipazione democratica, delle libertà sindacali e dell’organizzazione del lavoro nel principale scalo del regno. “Colla fine di luglio stesso si può dichiarare chiuso il periodo di funzionamento ad attività normale per entrare in quello in certo qual modo caotico in cui ci dibattiamo ancora”, prosegue la Relazione morale e finanziaria.

Nell’autunno 1922, a pochi giorni dalla marcia su Roma, era seguita la firma dell’oneroso patto di pacificazione con i fascisti, sottoscritto obtorto collo dalla CdL e dalla Federazione marinara. Un atto compiuto sulla pressione delle violenze e per pura necessità di sopravvivenza: labile compromesso, non compreso o malvisto da parte dei lavoratori, che senza fermare violenze e intimidazioni accelerava il processo di disgregazione della complessa organizzazione operaia genovese. 

Infine, la creazione delle corporazioni sindacali fasciste, avviate all’interlocuzione unica con le parti datoriali e verso cui sono spinti volenti o nolenti centinaia di operai e impiegati, in particolare delle professioni e del pubblico impiego che con fatica il sindacato genovese era riuscito a organizzare nel primo dopoguerra.

La continua emorragia di iscritti pesa su conti sindacali già provati dal sussidio economico, erogato alle centinaia di lavoratori espulsi dall’industria siderurgica e meccanica in piena crisi, all’Ilva, ma soprattutto all’Ansaldo dei Perrone, priva ormai delle lucrose commesse dei tempi di guerra e trascinata con il Banco di Sconto sino all’orlo del fallimento: il salvataggio per opera del governo comporta salassi occupazionali e incertezze su proprietà e piani industriali. La chiusura della stagione della borghesia imprenditoriale cittadina, l’affermazione di nuovi blocchi e poteri finanziari, la concomitante crisi economica e le rapide evoluzioni della scena politica nazionale producono un clima di forte incertezza e preoccupazione. 

Non fosse sufficiente la saldatura in atto tra industriali e fascisti, sul fronte interno al sindacato matura anche la perdita della componente politica massimalista. Una scissione, l’ennesima né l’ultima, delineata a Roma nel 1922 nel XIX Congresso del PSI, con la fuoriuscita dei riformisti a dar vita al PSU, il Partito socialista unitario. I socialisti genovesi, e con essi la Camera del Lavoro, confluiscono in massa nel partito di Giacomo Matteotti (1885-1924), eletto segretario nazionale del PSU e riconfermato alla Camera dei deputati nell’ultima tornata elettorale di aprile, anche sulla spinta dei 40mila voti agli unitari degli operai genovesi. 

Il Ponente industriale fa storia a sé. Le camere del lavoro di Sestri Ponente, Sampierdarena, Voltri sono espressione di diverse culture professionali e tradizioni organizzative, opposte al capoluogo e al suo porto: microcosmi operai e terreno fertile per la propaganda del sindacalismo rivoluzionario e del comunismo. 

All’estate 1924 la Camera del Lavoro genovese giunge esausta, sotto il profilo organizzativo e politico. Per giunta, l’anno in corso è iniziato con l’assalto fascista alla Casa del Marinaio, la deposizione di capitan Giuseppe Giulietti (1879-1953) e il commissariamento della Federazione italiana dei lavoratori del mare e della cooperativa Garibaldi, nate e cresciute per sua iniziativa all’ombra della Lanterna ma fumo negli occhi per l’intero armamento nazionale. 

La notizia del rapimento e dell’omicidio del Segretario del partito socialista e deputato al Parlamento piomba sulle calate e nelle officine per voce del quotidiano dei lavoratori, quel «Lavoro» nato nel 1903 proprio per iniziativa delle organizzazioni portuarie e solidaristiche. Segue immediata la reazione spontanea di mezzo migliaio di operai demolitori di navi e del ramo industriale del porto, in parte iscritti alla Camera del Lavoro, in parte ai sindacati fascisti. Ma il resto della città non reagisce, cupa e intimorita dalle bande nere che scorrazzano provocatoriamente per le vie del centro.

Pesa il ricordo delle conseguenze dello sciopero legalitario del ’22, ma gravano soprattutto le continue intimidazioni e violenze squadriste. L’ultima ai danni del sindacato, nel maggio 1923, aveva visto coinvolto Gaetano Barbareschi (1899-1963) – già segretario della locale Camera del Lavoro di Sampierdarena, che aveva coraggiosamente difeso dall’attacco del 1922, futuro ministro del Lavoro e dirigente socialista – percosso a bastonate nel corso di una sottoscrizione in favore di quattro operai deceduti sul lavoro. Quello di Barbareschi, d’altronde, è solo uno dei ventiquattro episodi di violenze, devastazioni e omicidi avvenuti a Genova che Matteotti stesso aveva denunciato nei primi mesi del 1924 nel suo pamphlet Un anno di dominazione fascista

Temendo il peggio, la Camera del Lavoro affigge un manifesto, in cui invita i lavoratori a non sospendere il lavoro in segno di lutto: “Facendo pressione sull’angoscia dell’animo nostro, noi dobbiamo sconsigliare qualsiasi atto del genere. L’atmosfera in cui si vive, priva di ogni libertà, compresa quella dell’espressione più intimamente umana, non consente alcuna protesta collettiva, anche se contenuta in forme rigidamente civili e dignitose. Ed anzi potrebbe essere di pretesto per la consumazione di altre riprovevoli gesta”.

 Si attende la linea della Confederazione nazionale, che pochi giorni dopo invita i lavoratori italiani a commemorare Matteotti con l’astensione dal lavoro il giorno 27 giugno, data che segna anche l’inizio della secessione dai lavori parlamentari dei deputati dell’opposizione, ma per soli dieci minuti. 

È poco? È molto? A farsi carico di una muta domanda collettiva è il giornalista genovese Giovanni Ansaldo (1895-1969) caporedattore a «Il Lavoro» all’inizio di una ondivaga carriera che lo vedrà prima bastonato dai fascisti a Carrara, poi confinato a Lipari da Mussolini, quindi chiamato dal genero Galeazzo Ciano alla direzione del suo giornale e come voce radiofonica all’EIAR, per finire catturato dagli angloamericani: 

«Dieci minuti, dunque, di ricordo e di silenzio. È poco ed è molto. È poco se si confronta alla grandezza del sacrificio compiuto da Giacomo Matteotti, alla atrocità del delitto, alle lagrime dei figli e della moglie sua, alla vita fiorente recisa, e in qual modo! […] È molto, se davvero, in quei dieci fuggevoli minuti, gli italiani rifletteranno alle sorti loro e del paese. La tomba di Matteotti è dinnanzi a noi, aperta, spalancata. Essa attende ancora il cadavere: quel cadavere che pervicacia di assassini, negligenza di inquirenti e tolleranza di uomini potenti non le hanno ancora dato. Ebbene, tutta l’Italia – non un partito, non noi soli – è sull’orlo di quella tomba aperta, che minaccia di essere una voragine inghiottitrice di tutta la storia nostra». 

Si disegna così, e si consolida immediatamente nella pubblicistica e nell’iconografia, l’immagine del lottatore indomito, caduto eroicamente da martire, come prosegue il manifesto della CdL. Il senso di una vita, umana e politica, consegnata al momento della sua fine, segno di un inarrestabile imbarbarimento della dialettica e della lotta politica, tragico punto di arrivo di una strategia che si avverte senza più sbocchi.

Nonostante i legittimi timori e l’esplicito divieto dei sindacati fascisti, che inveiscono alla speculazione su “un triste episodio stigmatizzato innanzitutto dal Duce del Fascismo e un atto di faziosa ostilità contro il governo”, alle dieci in punto al suono delle sirene del porto e delle fabbriche la maggioranza degli operai e degli impiegati si ferma, si bloccano i tram, i passeggeri si levano il cappello in segno di lutto. Sarà l’ultima volta, il fascismo vigileràimplacabile a ogni ricorrenza del 10 giugno, affollando gli archivi di Prefettura di segnalazioni di piccoli ma coraggiosi atti di disobbedienza. 

A un mese dal crimine, alla “croce di Matteotti”, improvvisato altare laico eretto sul luogo del rapimento, si reca reverente Lodovico Calda (1874-1947), a nome della classe lavoratrice genovese. Calda ne può vantare tutti i titoli di rappresentanza, essendo al vertice dell’organizzazione sindacale locale ormai da un quarto di secolo. 

Tipografo e organizzatore della categoria, cofondatore de «Il Lavoro» di cui è adesso amministratore, per venti anni segretario della Camera del Lavoro di Genova, sin da quel dicembre 1900 quando con lo sciopero generale a difesa della casa dei lavoratori i sindacalisti genovesi balzarono alla cronaca nazionale. Sincero e fedele socialista al fianco di Giuseppe Canepa (ora deputato aventiniano) e di Pietro Chiesa, dirigente nazionale della CGdL e del PSI sino alla prima espulsione nel 1912 dei riformisti, è adesso segretario generale del terremotato Sindacato italiano delle organizzazioni portuarie, con le categorie del carbone e del ramo industriale in piena ritirata di iscritti. 

Nocchiero in un mare in tempesta, come vuole la profetica tessera di un partito che non esiste ormai che sulla carta dopo l’abbandono del nucleo storico, il quarantenne Calda è investito anche della responsabilità di salvaguardare il giornale che amministra, tentare di mettere al sicuro la sua voce e i suoi lavoratori dalla stretta che il governo ha imposto dopo il delitto sulla libertà di stampa. Una censura che si abbatte, peraltro, nel momento della sua massima diffusione: 80mila copie distribuite nell’estate dell’affaire Matteotti, un traguardo ineguagliato per «Il Lavoro» e vero inedito per un quotidiano locale, di proprietà per giunta di una cooperativa di sindacati, categorie e società operaie.

Nell’ottobre 1922 il suo appello a Mussolini ne aveva garantito la riapertura dopo la marcia su Roma: ci riuscirà nuovamente, a fatica, nel maggio 1927 convincendo il duce a concederne la riapertura dopo sei mesi di inattività forzata. La sua capacità di mediazione, unita alla fiducia di cui godeva presso Mussolini (maturata in virtù dei trascorsi socialisti e della comune appartenenza nel 1915 alla causa interventista) consentirono alla testata di sopravvivere libera, benché assiduamente vigilata, sino al 1940. 

In applicazione dei primi decreti contro la libertà di stampa, emanati sotto la pressione di un’opinione pubblica nel suo ultimo sussulto, i sequestri delle autorità colpiscono tra 1924 e 1926 tutti gli altri giornali di opposizione: socialisti, liberali, repubblicani, comunisti, quelli dell’area anarchica, alcune testate cattolico-popolari e persino organi come «La Stampa» e il «Corriere della Sera». 

La scure non può che abbattersi pesantemente anche sulla galassia informativa sindacale. Nel 1928 l’Unione dei giornalisti antifascisti italiani stilerà un lungo elenco di vittime editoriali in una pubblicazione stampata a Parigi, dove hanno trovato rifugio e sono impegnati nella Concentrazione antifascista i maggiori dirigenti politici e sindacali. 

Tra questi Bruno Buozzi (1881-1944) che si è visto chiudere l’organo della Confederazione Generale del Lavoro da lui diretto, «Battaglie Sindacali», soppresso nel novembre 1926 dopo avere subito diverse aggressioni. Chimici, legatori, ferrovieri, marittimi, minatori, gasisti, cappellai, edili, metallurgici: nessuna esclusa, le organizzazioni verticali perdono i loro organi di informazione, propaganda e collante categoriale, anticipando di poco l’autoscioglimento della Confederazione nazionale, deciso il 4 gennaio 1927 dal Consiglio direttivo CGdL per prevenirne la soppressione. 

Le squadre di volontari operanti tra gli antifranchisti nella guerra di Spagna e quindi le brigate Matteotti attive nella Resistenza italiana, saranno occasione di riscatto e lascito morale di una generazione politica e sindacale che a distanza di vent’anni esatti dal delitto, vedrà ancora nel segretario CGIL Bruno Buozzi, arrestato e fucilato nelle campagne romane il 4 giugno 1944, una delle ultime vittime illustri della barbarie denunciata da Matteotti. 

Proibite le commemorazioni, intercettate le pubblicazioni clandestine, perseguiti i militanti e gli intellettuali socialisti, comunisti e liberali, nei venti anni successivi alla morte la memoria pubblica di Matteotti potrà essere affidata solo ai fuoriusciti. Durante l’esilio forzato, a dispetto delle differenze e animosità politiche trasferite anche oltralpe dalle molte anime dell’opposizione antifascista, la figura di Matteotti, nella sua veste di vittima illustre della dittatura ben nota all’opinione pubblica britannica e francese, riassume e catalizza la propaganda del rinato sindacato clandestino e delle altre forze dell’opposizione. 

Proprio sull’onda dello sdegno verso il delitto e la reazione liberticida, avevano aderito al PSU anche teorici del socialismo liberale come Carlo Rosselli, poi fondatore in Francia di Giustizia e Libertà, oppure Sandro Pertini, ancora vicino agli ex combattenti di «Italia Libera»: sarà lui, con un manipolo di coraggiosi, a guidare Filippo Turati nella fuga in Francia, che gli frutterà l’esilio e poi la lunga detenzione in carcere e al confino. 

Negli anni della dittatura, solo nelle testate del fuoriuscitismo e negli opuscoli stampati clandestinamente può trovare spazio anche il ricordo dell’azione sindacale del socialista veneto, un elemento più volte scivolato dal percorso biografico, schiacciato essenzialmente sulla sua tragica fine e la sua appartenenza politica. Sono le uniche testimonianze, per lunghi anni, di un ricordo sempre vivo, la fiamma che non si spegne dell’iconografia dei fuoriusciti socialisti e dei dirigenti e militanti sindacali.

Prima della guerra, Matteotti era stato attivo promotore di leghe contadine, circoli operai e biblioteche popolari, in chiave di lotta all’analfabetismo e di generale emancipazione dei lavoratori. Su «La Lotta», organo dei socialisti e delle organizzazioni economiche del Polesine, sulla «La Giustizia» di Milano, lanciava costanti appelli all’organizzazione sindacale, denunciando i soprusi degli agrari e le condizioni sanitarie e abitative dei contadini. Nel biennio rosso, Matteotti aveva guidato le lotte dei braccianti agricoli del Polesine, sino al vittorioso accordo sul controllo sindacale del collocamento e sull’imponibile di manodopera, che costringeva i proprietari all’assunzione di lavoratori in proporzione all’estensione dei terreni posseduti. 

Già deputato e in via di riconferma, delegato nel gennaio 1921 al congresso socialista di Livorno ne aveva abbandonato lavori e disquisizioni dottrinali per precipitarsi nell’epicentro dello squadrismo rurale, a fare il segretario della Camera del Lavoro nella Ferrara di Italo Balbo

Ancora Giovanni Ansaldo richiama la sua visione militante dell’essere Segretario, di camera del lavoro e di partito, “strana parola cui si annette di solito l’idea di una funzione sedentaria, tranquilla: registrazione di atti, cifre, documenti; evasione di pratiche amministrative, o anche discussione e intervento in interni litigi, o contatti esteriori e pacifici rapporti con altri partiti! Quel «segretario» fu l’alfiere e l’araldo, l’excitator dei dormienti e di tutti coloro che fingevano d’aver sonno o che pensavano miglior tattica farsi credere morti per non essere uccisi”. 

Resiste ancora pochi mesi il segretario di Genova, il tipografo spezzino Mario Corio (1884-1972). Vede cadere una dopo l’altra le camere del Lavoro del Ponente, liquefarsi l’organizzazione dei lavoratori marittimi e portuali, sostiene una pur combattiva FIOM nelle sue ultime lotte. Sino al 10 ottobre 1925 quando la Camera del Lavoro viene sciolta dal prefetto Arturo Bocchini (1880-1940), prossimo a diventare il famigerato capo della polizia fascista, creatore dell’OVRA e tra gli uomini più vicini a Mussolini. 

La tormenta, durata due anni, ne ha spazzato via venti di organizzazione sindacale, fiore all’occhiello del progetto socialista di affermazione delle classi lavoratrici attraverso non la via rivoluzionaria, bensì in un graduale processo di riforme, ottenute attraverso la lotta e la mediazione. La prospettiva politica che aveva guidato Matteotti nel sindacato e nel partito. 

Il 10 giugno 1945, nella prima commemorazione libera del martire socialista, in cui si fonde il ricordo di tutti i caduti della guerra di Liberazione appena terminata, è Clodoaldo Binotti (1886-1963) a tenere l’orazione ufficiale a Genova. Nel 1920, insieme a Corio aveva sostituito Calda alla segreteria della Camera del Lavoro genovese, reggendola sino allo sciopero legalitario: più volte deputato, membro della direzione nazionale del PSU con Matteotti, aveva vissuto persecuzioni e il confino a Lipari. 

Al suono delle sirene e delle campane di tutte le chiese, viene arrestato il traffico cittadino e tre minuti di silenzio accompagnano in piazza De Ferrari il ricordo del sacrificio “da cui si sprigionava alta e ammonitrice nel cielo della patria una luce di martirio, una fiamma di volontà che purificava la cupa atmosfera che aveva avvolto il paese sotto l’affermarsi del regime fascista… pegno di vita e promessa di rinascita per tutto il popolo nostro… Quello di Giacomo Matteotti è un nome che parla a tutto un popolo un linguaggio perenne di martirio e di gloria” («Il Lavoro», 9 giugno 1945). 

La tempesta era finita.

LE IMMAGINI

Immagine di copertina: Festa dell’«Avanti!», [Ferrara] 4 giugno 1950 [Sezione fotografica dell’Archivio storico CGIL – per gentile concessione: si ringrazia Ilaria Romeo, responsabile dell’Archivio storico Cgil nazionale]

  1. La sede della CdL di Riva Trigoso devastata dai fascisti [Archivio Perillo c/o Archivio storico del Comune di Genova – per gentile concessione: si ringrazia Andreana Serra, Responsabile Polo Storia e Memoria cittadina]
  2. Gonfalone della Federazione dei calafati carpentieri e falegnami del Porto di Genova [Archivio fotografico Camera del Lavoro di Genova]
  3. Fotografia di gruppo del VII Congresso dei Lavoratori dello Stato, Genova maggio 1921 [Archivio fotografico Camera del Lavoro di Genova]
  4.  «Il Lavoro», 13 giugno 1924 [Biblioteca Digitale Ligure]
  5. «Il Lavoro», 27 giugno 1924 [Biblioteca Digitale Ligure]
  6. «Il Lavoro», 13 luglio 1924 [Biblioteca Digitale Ligure]
  7. Ritratto di Lodovico Calda [Archivio Perillo] 
  8. Tessera del Partito Socialista Italiano, 1924 [Archivio Perillo] 
  9. Ritratto di Bruno Buozzi [Archivio Perillo]
  10. La fiamma che non si spegne in una pubblicazione socialista del 1925 [Archivio Perillo] 
  11. Decreto di scioglimento della Camera del Lavoro di Genova, 10 ottobre 1925 [Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Categorie permanenti 1894-1958, G1, associazioni, b. 87, fasc. 399]
  12. Ritratto giovanile di Giacomo Matteotti [Archivio Perillo]

IN BIBLIOTECA

    • Union des journalistes antifascistes italiens «Giovanni Amendola», Exposition de la presse antifasciste italienne (Cologne, 10 juin 1928), Paris 1928 
  • Partito socialista italiano, Almanacco socialista per l’anno 1931
  • Gaetano Perillo, Barbareschi Gaetano, voce in Il movimento operaio italiano. Dizionario biografico (1853-1943), a cura di Franco Andreucci e Tommaso Detti, vol. I, Editori Riuniti, Roma 1975
  • Gaetano Perillo e Camillo Gibelli, Storia della Camera del Lavoro di Genova. Dalle origini alla seconda guerra mondiale, Editrice Sindacale Italiana, Roma 1980
  • Giovanni Ansaldo, L’antifascista riluttante. Memorie del carcere e del confino (1926-27), a cura di Marcello Staglieno, Il Mulino, Bologna 1992
  • Marco Massa, Sciopero! Dicembre 1900: la riscossa del proletariato inizia da Genova con Lodovico Calda, Provincia di Genova, 2000
  • Giacomo Matteotti, Un anno e mezzo di dominazione fascista, a cura di Stefano Caretti, Pisa University Press, 2020
  • Luca Borzani e Sebastiano Tringali, Matteotti e Genova, Editoriale Gedi-«Repubblica», Roma 2024

IN RETE

Ilaria Romeo, L’ottobre nero del 1922, «Collettiva», 2 ottobre 2021

Emiliano Sbaraglia, Giacomo Matteotti, vita e morte di un grande italiano, «Collettiva», 23 maggio 1924

Emeroteca storica Casa Museo “Giuseppe Matteotti”

Collezione de «Il Lavoro» Biblioteca Digitale Ligure