Igor Magni Segretario Generale Cgil Genova alla Commemorazione in ricordo di Livraghi e Maffei nell’ottantesimo anniversario della loro fucilazione
RICORDO DELLA FUCILAZIONE DI LIVRAGHI E MAFFEI.
Grazie a tutti i presenti per essere qui e soprattutto grazie alla Sezione Anpi Monte Sella di
Bolzaneto per aver organizzato questo incontro al quale la Camera del Lavoro di Genova
non fa mai mancare il suo sostegno.
Oggi siamo qui per ricordare il sacrificio non di due super eroi, ma di due uomini comuni,
due operai.
Armando Maffei 42 anni e Renato Livraghi di 19, entrambi di Bolzaneto, sono stati fucilati il
18 dicembre 1943 al forte di San Giuliano. La loro colpa? Quella di aver scioperato.
Quest’uomo e questo ragazzo sono stati i primi di un lungo elenco di lavoratori genovesi
che hanno pagato con la vita il desiderio di libertà e democrazia.
Non super eroi quindi, ma operai. E’ straordinario come pagine fondamentali della nostra
storia recente siano state scritte da persone comuni, donne e uomini, lavoratrici e
lavoratori, che non hanno esitato a fare la cosa giusta quando hanno dovuto scegliere,
anche mettendo a repentaglio la propria vita come hanno fatto Livraghi e Maffei.
Nel 1943 Genova era occupata dai nazi fascisti e fu allora che iniziarono le prime
manifestazioni sui posti di lavoro e nei quartieri. Si voleva la fine della guerra e la
restituzione della libertà. Le fabbriche della Val Polcevera, di Sampierdarena e del
Ponente furono tra le prime a scioperare colpendo anche la produzione bellica e la
risposta fu feroce: fucilazioni e deportazioni di massa per chi cercava di salvare
macchinari e strumentazioni industriali che sarebbero stati fondamentali per la rinascita
economica e sociale del dopo guerra.
Ma del resto il mondo del lavoro genovese non si è mai tirato indietro quando c’è stato da
scegliere da che parte stare.
Genova fece parlare di sé già nel 1900 quando la chiusura della Camera del Lavoro fu la
scintilla per la proclamazione del primo sciopero generale in Italia, evento talmente
deflagrante da far cadere il Governo Saracco. E poi con gli scioperi del 43/44 con
purtroppo tanti episodi come quello che ricordiamo oggi, ma anche con la brutale
deportazione, il 16 giugno 1944 di 1.500 operai dalle fabbriche del ponente e ancora il 30
giugno 1960 quando lo sciopero proclamato dalla Camera del lavoro di Genova contro
l’effettuazione del congresso neofascista che si sarebbe dovuto svolgere in città, diede il via a manifestazioni che da Genova si allargarono al resto d’Italia, con epiloghi anche
tragici, ma che alla fine portarono alla caduta del governo Tambroni. E poi non possiamo
non ricordare Guido Rossa. Anche Rossa era un operaio come Livraghi e Maffei, anche
Rossa era uomo tra i tanti, ma con un rigore morale fuori dal comune che, con il suo
sacrificio, anche questo badate non ricercato ma messo in conto, ha pagato con la vita la
sua coraggiosa testimonianza che ha portato all’arresto di Berardi suo collega e “postino”
in fabbrica delle Br. La morte di Rossa segnò l’inizio della fine delle brigate rosse perché
da quel momento, anche chi non aveva capito sino in fondo o non aveva voluto capire,
dovette aprire gli occhi. Genova ricorda Guido Rossa ogni 24 gennaio, in via Fracchia
dove è stato ucciso, nella sua fabbrica oggi Acciaierie d’Italia, in Camera del Lavoro e in
piazza Piccapietra dal monumento che loro ricorda.
E’ nell’esempio e nell’insegnamento di quanto fecero le donne e gli uomini, le lavoratrici e i
lavoratori della Resistenza che nascono i semi dove germoglierà forte e indissolubile il
rapporto tra Resistenza e Lavoro. Non a caso le madri e i padri costituenti lo vollero scritto
all’articolo 1 della Carta Costituzionale “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul
lavoro”. Sono passati 75 anni da allora, ma questo intreccio continua ad essere di una
straordinaria e importante attualità. La Costituzione non è un pezzo di carta del passato, è
viva e contiene strumenti che devono orientare le scelte politiche nel solco degli ideali e
dei valori per i quali tanti lavoratori come Livraghi e Maffei si sono sacrificati. Ideali e valori
senza i quali, a mio parere, non si può guardare in avanti. Si deve ripartire da lì per
provare ad invertire un declino economico, sociale e politico che pare irreversibile. Ma
guardate non ci sono scorciatoie, non ci sono ricette miracolose: per costruire solidamente
il nostro futuro, nella vita così come nel lavoro, le radici devono essere ben piantate in quei
principi di rispetto verso le libertà altrui, di rifiuto della sopraffazione e della violenza, di
uguaglianza tra le persone, di diritto al lavoro dignitoso e stabile, che proprio le donne e gli
uomini della Resistenza e della Liberazione indussero a iscrivere nella Costituzione
repubblicana.
Eppure oggi c’è chi tenta di riscrivere queste pagine di storia, dicendo che sono stati tutti
uguali, e che vorrebbe tacciare quel passato come una cosa vecchia della quale non
interessa più a nessuno. Non è così e non può essere così. Se oggi viviamo in un paese
democratico lo dobbiamo a quelli che sono venuti prima di noi, a quelli che hanno scelto
da che parte stare.
Come si può pensare di mettere sullo stesso piano i fascisti, torturatori e oppressori con i
partigiani? Chi lottato per la pace, l'indipendenza e la libertà, con chi ha tradito, tramato, chiuso gli occhi davanti alla persecuzione di ebrei, zingari, omosessuali? Di chi ha ucciso e torturato donne e uomini che volevano pace e giustizia? Ecco perché l’antifascismo non passa di moda: l’antifascismo fu e resta elemento costituivo dell'alleanza popolare per la libertà e quindi dell’Italia repubblicana.
Sapete perché quello che accadde allora è così attuale oggi? Qualche esempio concreto:
le polemiche di questi giorni sul diritto di sciopero. Nel 1926, per legge, non si poteva fare
sciopero: chi faceva sciopero veniva arrestato. Oggi sembra impossibile solo pensarlo,
eppure c’è chi, invece di guardare avanti e ampliare i diritti, va indietro e cerca di limitare
questo diritto, facendo anche finta di non sapere che sono stati proprio i sindacati a volere
la regolamentazione del diritto di sciopero nei settori pubblici che sono quelli che
garantiscono salute, mobilità ecc a tutti cittadini, anche di quelli che non pagano le tasse..
ma questo invece per il governo pare non essere un problema.
Chi accusa la Cgil di fare scioperi politici non dice una falsità. Certo la maggior parte delle
proteste sono per le questioni legate al lavoro, il rinnovo del contratto di lavoro, la richiesta
di maggiore sicurezza sul lavoro, ma poi, proprio come in allora, le mobilitazioni del
sindacato, della Cgil, vanno oltre: e allora si sciopera in sanità per riconoscere il giusto
salario a chi ci lavora ma anche per chiedere nuove assunzioni e maggiori risorse per una
medicina diffusa sul territorio che possa liberare i pronto soccorso lasciandoli ai casi
veramente gravi o per non dover aspettare una risonanza per mesi..
Vedete come la storia si ripete? Le motivazioni di chi scioperava nel 43 erano anche
queste, si volevano pace e lavoro, si voleva un futuro migliore per i propri figli, si voleva
giustizia sociale.. Oggi siamo in un contesto diverso, noi oggi in Italia siamo in pace e in
democrazia, ma non per tutti è così. Ce lo ricordano tutti i giorni le notizie che arrivano da
Ucraina o Medio Oriente, solo per citare le ultime due guerre, ma in giro per il mondo i
conflitti, dimenticati anche dall’occidente, sono a decine.
Come dicevo la pace oggi, almeno qui la abbiamo, anche per merito di chi ha fatto la
Resistenza. Quello che è cambiato è la considerazione e la percezione del lavoro.
Soprattutto negli ultimi decenni la sua centralità è venuta meno. Le politiche liberiste e la
rincorsa al profitto hanno generato veri e propri mostri. Negli ultimi anni il lavoro ha subito
costanti trasformazioni con profondi cambiamenti che continuano nell’epoca che viviamo, con processi sempre più marcati e frequenti di automazione, digitalizzazione e con
l’introduzione dei nuovi lavori, quelli gestiti dalle app e più in generale dall’intelligenza
artificiale, chiudendo così un’epoca per aprirne un’altra fatta di precarietà e svalutazione
del lavoro.
La precarietà è dilagante: pensate che oggi i tre quarti delle nuove assunzioni riguardano
lavoratori precari. Questo significa non dare prospettive ai nostri ragazzi, molti dei quali
sono talmente disillusi che un lavoro non lo cercano nemmeno più. Chi non ha un lavoro
stabile e dignitoso, perché purtroppo oggi pur lavorando si può essere in condizioni di
estrema difficoltà, non ha possibilità di costruire un percorso di vita, di comprarsi casa,
sposarsi, avere figli o semplicemente mantenersi e contribuire al benessere collettivo.
Queste condizioni mettono in discussione la libertà individuale di ognuno di noi.
Questo perché senza la certezza di un lavoro giustamente retribuito, sicuro, che tutela la
salute, che ci garantisce la formazione continua e incardinato in un sistema sociale forte
non ci sono garanzie di vita accettabili ed è a rischio anche la democrazia.
Per questo, anche di fronte alle guerre e alle tensioni internazionali che vediamo in tutto il
mondo e alla colpevole, grave, sottovalutazione politica di quello che sta accadendo,
parlare delle lotte operaie di quei giorni drammatici per la pace e i diritti, significa leggere
dentro di noi per comprendere come l’unità di lavoratrici e lavoratori, la forza che hanno
saputo esprimere in momenti così difficili siano le fondamenta sulle quali costruire un
futuro diverso e migliore che non lascia indietro nessuno e che include chi oggi ha
bisogno ed è in cerca di speranza, rappresentanza, giustizia sociale, in particolare donne
e giovani.
Quella rappresentanza che il nostro sindacato deve saper offrire a tutte e tutti e per la
quale dobbiamo lavorare con sempre maggiore intensità insieme a tutte le forze civiche, le
associazioni, i sindacati e spero presto con una politica che guardi davvero e finalmente a
sinistra.