Una campagna di sensibilizzazione e informazione sulla precarietà, ma anche di lotta contro la precarietà. La promuove la Cgil insieme alle sue categorie per alzare l’attenzione sulla questione della qualità e della dignità del lavoro e della condizione dei redditi, tutti temi che non sono al centro dell’agenda politica del nostro Paese. “La precarietà ha troppe facce. Combattiamola insieme” è lo slogan dell’iniziativa, animata sui canali social dai lavoratori che rappresentano e incarnano la precarietà.
Per nove settimane saranno protagonisti i volti e le storie di chi fa i conti con ogni tipo di flessibilità e di incertezza: a termine, part time (in larga misura involontario), in appalto, in somministrazione, con voucher e contratti intermittenti, a collaborazione e a partita Iva, con orari miseri, irregolari, stagionali. Tante facce per altrettante condizioni occupazionali, che si traducono in situazioni di vita difficili, maggiore esposizione ai rischi relativi anche alla salute e sicurezza nel lavoro, e complicate prospettive per il futuro. Si parte con i lavoratori a termine, che in Italia sono circa 3 milioni.
“Abbiamo scelto i volti perché dietro ai numeri dei milioni di somministrati, intermittenti o lavoratori a termine ci sono persone – spiega la segretaria confederale della Cgil Maria Grazia Gabrielli -. Persone con le loro storie, le loro ansie, i problemi quotidiani, i sogni, le aspettative. Raccontarli in maniera diretta, così chiara e nitida, li rende concreti. Dietro ai dati sui quali si baserà la campagna e di cui di solito non si parla, ci sono giovani e meno giovani, migranti, uomini e donne impiegati nei settori pubblici e privati, che sono la rappresentazione della realtà”.
Perché la Cgil ha deciso di fare una campagna sulla e contro la precarietà?
Perché si continua a guardare la crescita dell’occupazione, un aspetto importante che va certamente osservato ma che non è sufficiente per misurare lo stato di salute di milioni di precari e non precari del nostro Paese. Sono persone che restano ai margini. Le politiche che vengono fatte e, ancor peggio, le scelte che non vengono compiute lasciano questi lavoratori in una condizione di mancanza di libertà, poiché non possono vivere dignitosamente e non possono decidere della propria vita. Questa non è una questione contingente, non riguarda solo l’oggi, ma anche il futuro di milioni di persone. Quindi bisogna affrontare e risolvere due emergenze: lavorare sulla precarietà oggi significa costruire in prospettiva migliori condizioni per i pensionati di domani.
Questo perché la precarietà riguarda soprattutto i giovani?
La precarietà condanna in particolar modo le generazioni più giovani, le rende particolarmente fragili e riguarda ancora più le donne degli uomini. È a queste due grandi platee che dovremmo rivolgere specifiche politiche per recuperare il gap esistente, che abbiamo anche nei confronti del resto dell’Europa, oltre alle disparità che ci sono all’interno del nostro Paese, come per esempio tra Nord e Sud. Eppure ancora oggi tutto questo non è al centro delle politiche del governo.
La precarietà è un fenomeno in crescita?
Sì, è in crescita ed è un fenomeno che va guardato con una lente di ingrandimento perché comprende anche una fetta importante di lavoratori irregolari e in nero, circa 3 milioni di persone che pesano in termini economici per oltre 68 miliardi di euro.
È il nero la forma più odiosa di precarietà?
Il lavoro nero e irregolare presenta certamente le condizioni più drammatiche e deleterie ed è spesso collegato al caporalato, un fenomeno ancora presente che anzi si è consolidato ed esteso dal settore agricolo a moltissimi altri ambiti economici e produttivi come la logistica e la distribuzione. È il più odioso perché rende evidente la condizione di schiavitù del lavoratore, che è all’opposto di ciò che il lavoro dovrebbe rappresentare, e cioè la condizione di persone libere di scegliere, di essere autonome e di autodeterminarsi.
La gamma delle tipologie contrattuali che costringono in una condizione di precarietà è molto ampia, e il nostro ordinamento prevede che si possa vivere in una situazione di povertà anche quando si ha un contratto di lavoro stabile. Questo capita a chi ha poche ore lavorate pur avendo un tempo indeterminato, penso al part time e in particolare al part time involontario che è enormemente cresciuto, o a chi è a tempo pieno ma in appalto, quindi con una precarietà data dal sistema degli appalti, subappalti, rinnovi.
Quando si parla di precarietà l’accusa più frequente che viene rivolta al sindacato è che non se ne è mai occupato abbastanza. Che cosa risponde?
Che noi ce ne siamo occupati e continuiamo farlo. Siamo l’organizzazione sindacale che ha proposto e propone iniziative inclusive, di contrasto alle soluzioni che mirano a rendere più precario, debole e frantumato il mercato del lavoro. Lo abbiamo fatto con il jobs act e con la legislazione che ne è seguita, contro la liberalizzazione del contratto a temine e la somministrazione, con il voucher, con il sistema degli appalti. Ci sono altri due provvedimenti che il governo ha messo in campo in questa fase, il decreto Pnrr e il collegato lavoro. La Cgil sta dicendo che entrambi contengono misure in parte deboli e in larghissima parte sbagliate che vanno cambiate e questo si può fare con un vero confronto con le parti sociali. Confronto che il governo continua a negare.
Solo chi ha poca memoria o è in mala fede non ricorda che insieme alle mobilitazioni, all’azione contrattuale delle categorie, alle vertenze individuali e collettive, abbiamo proposto un modello sociale diverso partendo dalla centralità del lavoro attraverso la Carta dei diritti universali del lavoro. E poi, ancora, davanti a un sistema regolatorio che ha precarizzato e reso più deboli e vulnerabili i lavoratori, accentuando una flessibilità che è tutt’altro che positiva, abbiamo continuato a esercitare un ruolo nella contrattazione a partire da quella nazionale, nel promuovere le buone pratiche nelle aziende per attivare percorsi di stabilizzazione.
È questo il significato dello slogan “combattiamola insieme”?
Per cambiare il mercato del lavoro e costruire un modello sociale più giusto, equo e dignitoso da consegnare alle giovani generazioni è necessario che questo sia un obiettivo condiviso, collettivo, partecipato anche da chi non ha mai vissuto la condizione di precarietà. Abbiamo bisogno di trasversalità, di comprendere che se non viene rimossa questa zona d’ombra è difficile immaginare di migliorare le condizioni di tutti.
Noi lo faremo con molti strumenti, la contrattazione, le proposte di legge, i contenziosi. E continueremo a farlo anche con l’iniziativa referendaria. È un’azione completa quella che la Cgil mette in campo per superare gli elementi di difficoltà, precarietà e povertà.